
La Biodiversità agricola storica in un Patrimonio Culturale delle specie viventi e dei relativi agroecosistemi, materiale e immateriale, contro l’abbandono delle aree interne, la perdita delle identità locali e la scomparsa dei terroir (ex BAS-VO, DSU.AD045.003)
Descrizione del progetto
La ricerca concepisce il Patrimonio Culturale ‘vivente’ in senso esteso (la biodiversità agricola storica, intersecata alla naturale, e chi se ne prende cura nei secoli) e riacquisisce così quella parte di passato dinamico altrimenti non recuperabile, o non del tutto, nel tradizionale approccio di muovere “dal passato per il passato”, cioè solo tramite una catalogazione di strutture e oggetti, che fotografano una cultura in un certo periodo, sospeso nella sequenza temporale. Il gruppo di ricerca vede ciascuno impegnato nello sforzo di avvicinare proprie competenze e linguaggio in un interscambio e rilancio di dati costante e continuo, nel quale un corretto e approfondito esame, recupero e interpretazione delle fonti nell’ampio ventaglio della loro diversificazione (materiali, immateriali, delle specie e umane) è arricchito da un’informazione misurabile e codificata dell’analisi scientifica. L’idea di dare priorità alla conoscenza sviluppata da chi sta sul territorio e lo frequenta, affinando strumenti per interpretarla, reindirizzarla a livello scientifico e valorizzarla con la generazione di nuova, ha portato da subito a stabilire un’interlocuzione diretta e costante con le aziende agricole. Le azioni in campo supportano la formulazione di indirizzi di policy per il governo del territorio, basati su un uso più ampio e consapevole del bagaglio di ‘buone pratiche’ accumulato in millenni di agricoltura nelle diverse condizioni climatiche. Si procede quindi verso un ripensamento sia dei Cultural Ecosystem Services (CES), sia di un Circular Bio-Based Europe Joint programme, affinché venga esteso ad un’agricoltura contadina e ai sistemi di economia circolare attivati da essa nei secoli, oltre al pensare di riconvertire l’attività industriale.
‘Biodiversità’ e ‘agricoltura’ sono concetti declinati sul piano strategico e programmatico europeo, e di conseguenza nazionale, in molti modi. Le diverse accezioni sono mediamente espresse attraverso nobili intenti ma la proiezione è sul risultato oggettivo. Il Patrimonio Culturale, materiale e immateriale, che li rappresenta tende a rientrare in una visione antropocentrica di ‘insieme di beni ereditati dal passato’, ancor meglio espressa nella dimensione “vivente”, ossia di singoli o comunità detentrici di particolari conoscenze. Involontariamente questo porta persino a riaffarciarsi la dicotomia ottocentesca fra le entità ‘campagna’, a cui è delegata l’intera responsabilità di garantire la sanità di risorse (aria, acqua, suolo), ambiente naturale e cibo; e la ‘città’, beneficiaria in termini di sostenibilità che si intende come risparmio energetico, sicurezza alimentare, contrasto alla povertà e alla discriminazione. In questa percezione spiccano per la loro assenza a) l’agricoltore, artefice materiale nel mondo rurale e portatore di conoscenze; b) la campagna, dove un’idea generica di ‘landscape’ non rende ad esempio le componenti storico-geografiche, colturali e culturali di ‘campus’, ‘collis’ e ‘mons’, codificate già dai Romani nel mondo euro-mediterraneo e diverse da luogo a luogo; e c) gli esseri viventi (piante e animali), specifici, caratterizzanti e persino identitari di ciascun posto a seguito di un adattamento, che li riguarda comunque tutti, e di cure protratte nel tempo, in particolare per le colture e le specie allevate. A loro sostegno e in funzione di un cambiamento in atteggiamenti, comportamenti e percezione la ricerca individua e persegue una terza via, ribaltando interamente la prospettiva e superandola. Riprendendo infatti la SCBD Ishikawa Declaration on Biocultural Diversity (29 ottobre 2016), completa l’abituale lettura antropologica e naturalistica dei contesti naturali e produttivi (definiti complex interplay between biodiversity and cultural diversity) con l’Agricoltura. Alla base la si riconosce quale risultato dell’interazione dell’Uomo con l’Ambiente attraverso le specie e le varietà che da millenni accompagnano le civiltà, a iniziare dalla Triade Mediterranea (vite, olivo e grano). L’integrated approach che la Dichiarazione considera, per garantire un uso equo e sostenibile di risorse e benefici offerti dalla Natura, si articola e declina meglio attraverso i tre elementi che compongono la definizione di terroir in senso lato (non solo vitivinicolo), cioè Uomo, Ambiente e Colture quali elementi attivi e viventi, ‘culturali’ in quanto recuperati in divenire nel Tempo assieme alle pratiche e alle conoscenze che li accompagnano. In una più ampia formulazione del Patrimonio Culturale la ‘cultura’, attraverso le Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche al fianco delle Biologiche e Agrarie, riconosce come parte di sé le specie, le varietà, il lavoro dei contadini che le accompagna, le ‘buone pratiche’, le forme del territorio, il paesaggio che viene modellato e i prodotti che si ricavano, valorizzandoli sull’intera filiera (campo, infrastrutture, prodotto, mercato, turismo) e nella definizione di indirizzi di policies. Superando la stessa Convenzione di Faro (2005) e i suoi principi di diversità paesaggistica, geologica (matrice della precedente), biologica (essenzialmente naturale) e culturale (ossia in chiave antropologica), la ricerca sviluppa il concetto di Biodiversità agricola storica (e quindi culturale olivicola, cerealicola, frutticola, orticola e zootecnica), e modifica il principio che la Biodiversità sia solo naturale. I risultati si stanno raccogliendo in particolare su due regioni (Basilicata: Vulture, Val d’Agri, Pollino, Matera; e Campania: Taburno Camposauro, Penisola Sorrentina, Cilento, Vallo di Diano, Golfo di Policastro) per il settore vitivinicolo, delle quattro (con Calabria: Locride e Puglia: Salento, includente l’olivicolo) su cui si sta operando.
Responsabili e Contatti
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Tel.: 0971/427412; cell. 329/4327455